Il principe che aveva un milione di madri

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 Pubblico una delle tante storie vediche descritte nello Shrimad Bhagavatam, dove attraverso accadimenti avvenuti nella vita quotidiana vengono esposti i principi filosofici dello yoga. Ringrazio l’Associazione Internazionale per la Coscienza di Krishna per il materiale tradotto e messo cortesemente a disposizione dei ricercatori spirituali.

“Alcuni vedono l’anima come una meraviglia, altri la descrivono come una meraviglia e altri ancora ne sentono parlare come di una meraviglia, ma c’è chi non riesce a concepirla neanche dopo averne sentito parlare.” (Bhagavad-gita 2.29)

“La nostra nascita non è che sonno e oblio” scriveva il poeta britannico William Wordsworth nella sua celebre opera ‘Intimations of immortality‘ (‘Segni d’immortalità‘). In un altro poema egli si rivolge a un neonato con queste parole:

“Oh, dolce nuovo arrivato
Su questa mutevole Terra,
Se è vero,
Come i grandi veggenti arditamente presagirono,
Che altre volte tu fosti un essere umano,
Benedetto dalla presenza di genitori umani,
Allora, molte volte
Nel passato
La tua madre presente
Ti strinse sul suo seno fecondo
O piccolo straniero ridotto all’impotenza.”

Nel seguente racconto, tratto dallo Srimad Bhagavatam, il figlio del re Citraketu rivela le sue vite passate e istruisce il re e la regina sull’immortalità dell’anima e sulla scienza della reincarnazione.
Il re Citraketu aveva molte mogli; sebbene egli fosse in grado di generare dei figli, non ne aveva nessuno poiché le sue belle mogli erano tutte sterili. Un giorno, il grande saggio Angira giunse al palazzo di Citraketu. Il re si alzò immediatamente dal suo trono e, secondo l’usanza vedica, gli offri i suoi omaggi.

Il saggio disse: “O re Citraketu, posso vedere che la tua mente è turbata. Il tuo viso pallido rivela una profonda ansia. Non sei forse riuscito a ottenere ciò che desideravi?” Poiché possedeva poteri soprannaturali, Angira conosceva la causa della sofferenza del re, ma aveva le sue ragioni per interrogare Citraketu, come se non fosse al corrente di nulla.
Il re Citraketu rispose: “O Angira, le tue grandi austerità e penitenze ti hanno permesso di raggiungere la conoscenza perfetta. Tu sei in grado di capire ogni cosa, sia interna sia esterna, che riguardi le anime incarnate come noi. O grande anima, tu sei cosciente di ogni cosa, tuttavia mi chiedi perché mi trovo in una tale angoscia… Così; per esaudire la tua richiesta, ti rivelerò la causa del mio dolore.

Come una ghirlanda di fiori non può saziare un uomo affamato, così, il mio vasto impero e il mio incommensurabile tesoro non sono nulla per me, poiché sono privo di ciò che fa la vera ricchezza dell’uomo: non ho figli. Non potresti venirmi in aiuto e farmi veramente felice? Puoi fare in modo che io abbia un figlio?”
Angira, che era molto misericordioso, accettò di aiutare il re. Egli compì un sacrificio speciale in onore degli esseri celesti, e quindi offri i resti del cibo sacrificale a Kritadyuti, la più perfetta tra le regine di Citraketu. Angira allora disse: “O grande re, presto avrai un figlio che sarà per te fonte di grande gioia ma anche di dispiacere.” Poi il saggio scomparve, senza attendere la risposta del re.

Appena seppe che avrebbe finalmente avuto un figlio, Citraketu manifestò una gioia senza limiti; si domandò tuttavia che cosa significassero le ultime parole del saggio.
“Angira avrà voluto sicuramente dire che sarò molto felice alla nascita di mio figlio, il che è certamente vero. Ma cosa avrà voluto dire aggiungendo che il bambino sarà per me fonte di dispiacere? Siccome sarà il mio unico figlio, automaticamente sarà l’erede del trono. Forse, per questa ragione diventerà orgoglioso e disobbediente, causandomi dispiacere. Ma è comunque meglio avere un figlio disobbediente che non averne alcuno.”

Col tempo Kritadyuti rimase incinta, e diede alla luce un bambino. Tutti gli abitanti del regno si rallegrarono alla notizia, e il re Citraketu non poteva contenere la sua gioia.
Poiché il re si occupava di allevare con cura il suo piccolo figlio, l’affetto che provava per Kritadyuti crebbe giorno dopo giorno, ed egli giunse a trascurare le sue mogli sterili. Le altre regine si lamentavano continuamente della loro sorte, poiché una donna che non ha figli viene trascurata dal marito, e le altre mogli la considerano come la loro serva. Le regine sterili bruciavano di collera e d’invidia. Più diventavano invidiose, e più perdevano l’intelligenza, tanto che il loro cuore divenne duro come una pietra. Esse si riunirono segretamente e decisero che c’era una sola soluzione al loro dilemma, un solo modo per ritrovare l’amore del marito: avvelenare il bambino.

Un giorno, mentre la regina Kritadyuti passeggiava nel cortile del palazzo, pensò al figlio che riposava tranquillamente nella sua stanza. Poiché amava teneramente il bambino e non poteva sopportare di essere separata da lui nemmeno per un istante, chiese alla nutrice di svegliarlo e di portare il figlio nel giardino.
Ma quando la serva si fu avvicinata al bambino, vide che i suoi occhi erano rivolti all’indietro e non davano segno di vita. Inorridita, mise un tampone d’ovatta sotto le narici del bambino, e vide che le delicate fibre del cotone non si muovevano. Sconvolta, gridò: “Ora sono maledetta!” e cadde al suolo. In preda alla più grande agitazione, ella si batteva il petto con entrambe le mani e piangeva rumorosamente.

Dopo pochi istanti la regina si avvicinò inquieta alla stanza da letto del bambino. Sentendo i lamenti della nutrice, entrò all’improvviso nella stanza e vide che suo figlio aveva lasciato questo mondo. Profondamente afflitta, coi capelli e gli abiti in disordine, la regina cadde svenuta.
Quando il re venne a sapere della morte improvvisa di suo figlio, diventò quasi cieco per il dolore. I suoi pianti si levarono violenti e mentre correva per vedere il bambino morto, incespicò e cadde ripetutamente. Attorniato dai suoi ministri e dignitari, il re entrò nella stanza del suo erede e cadde ai suoi piedi, coi capelli e i vestiti in disordine. Quando ritornò in sé, respirava a fatica; aveva gli occhi colmi di lacrime ed era incapace di parlare.

Non appena la regina vide il re immerso in un dolore così profondo e scorse di nuovo il cadavere di suo figlio, cominciò a maledire il Signore Supremo, e ciò accrebbe il dolore di tutti coloro che vivevano nel palazzo.
La regina perse la sua ghirlanda di fiori, i suoi capelli corvini si arruffarono; e le lacrime, cadendo, sciolsero il cosmetico dei i suoi occhi.
Ella gridò: “O provvidenza! Tu hai causato la morte del figlio mentre il padre vive ancora. Sei sicuramente la nemica degli esseri viventi e non possiedi la minima misericordia.” Volgendosi poi verso il suo adorato figlio, esclamò: “O mio caro figlio, sono ridotta all’impotenza e molto afflitta; non avresti dovuto lasciarmi. Come puoi abbandonarmi così? Guarda tuo padre in preda alla disperazione! Hai dormito abbastanza. Alzati ora, ti prego.

I tuoi compagni ti chiamano per giocare con loro. Devi avere molta fame; ti prego, vieni subito a prendere il tuo pasto.
Ah, figlio mio, sono estremamente sfortunata perché non posso più vedere il tuo dolce sorriso. Hai chiuso gli occhi per sempre. Sei stato rapito da questo pianeta e portato in un altro luogo, dal quale non tornerai mai più. Mio caro bambino, se non potrò più ascoltare la tua dolce voce, non potrò rimanere in vita.”
Il re cominciò a piangere rumorosamente, la bocca spalancata. Tutta la corte piangeva con i genitori del bambino, deplorando la sua morte precoce. Giunta la notizia dell’improvviso incidente, tutti i cittadini del regno furono prostrati dal dolore.

Quando il grande saggio Angira seppe che il re stava per essere sopraffatto dal dolore, si presentò al palazzo col suo amico, il santo Narada.
I due saggi trovarono il re prostrato dal dolore, disteso, come fosse morto, di fianco al cadavere di suo figlio.
Atigira allora si rivolse a lui con parole taglienti: “Svegliati dalle tenebre dell’ignoranza! O re, quali sono i legami di parentela che ti uniscono a questo cadavere, e quali sono i legami che egli ha con te? Potrai dire che si tratta di una relazione di padre e figlio, ma credi che questi legami esistessero prima della sua nascita? Credi che esistano ancora oggi? Continueranno adesso che è morto? O re, come granelli di sabbia che si incontrano a volte per poi essere di nuovo separati dalla forza delle onde oceaniche, così, gli esseri viventi che hanno ricevuto corpi materiali talvolta si incontrano, ma saranno poi separati dalla forza del tempo.” Angira voleva che il re capisse la natura temporanea di tutti i legami basati sul corpo.

Il saggio continuò: “Caro re, fin dal nostro primo incontro in questo palazzo avrei potuto concederti il più grande dei doni, la conoscenza trascendentale, ma vedendo che la tua mente era assorta in cose materiali, ti detti questo figlio, che è stato per te causa sia di felicità sia d’afflizione. Tu provi ora il dolore di coloro che hanno figli e figlie.
Moglie, figli e beni non sono che sogni. O re Citraketu, cerca di capire chi sei veramente. Considera da dove sei venuto, dove andrai dopo aver lasciato il corpo, e perché devi sottostare al giogo dell’afflizione materiale.”
Narada Muni compì allora un vero e proprio prodigio. Grazie ai suoi poteri soprannaturali richiamò l’anima del bambino morto, e questa divenne visibile agli occhi di tutti coloro che si trovavano nella stanza. Subito la stanza si rischiarò di una luce accecante e il bambino riprese a muoversi. Narada disse: “O essere vivente, possa tu godere di ogni buona fortuna! Ecco tuo padre e tua madre. Tutti i tuoi amici e parenti sono prostrati dal dolore che la tua morte ha suscitato.

Poiché sei morto prematuramente ti restano ancora molti giorni da vivere. Puoi quindi rientrare nel tuo corpo e approfittare di questi anni che ti restano da vivere, insieme ai tuoi amici e parenti; in seguito potrai salire al trono e beneficiare di tutte le ricchezze di tuo padre.”
Grazie ai poteri soprannaturali di Narada Muni, l’essere vivente rientrò nel cadavere. Il bambino che era morto si sedette e si mise a parlare, non con l’intelligenza di un giovane ragazzo, ma con la conoscenza perfetta di un’anima liberata: “Secondo i frutti delle mie attività materiali, io, l’essere vivente, trasmigro da un corpo all’altro, a volte tra gli esseri celesti, a volte anche tra le specie animali inferiori, perfino tra le specie vegetali, e a volte nella specie umana.
A quale reincarnazione appartengono questo padre e questa madre di cui mi stai parlando? Nessuno è in verità mio padre e mia madre. Ho avuto milioni di cosiddetti genitori. Come posso quindi considerare queste due persone come mio padre e mia madre? ”

I Veda insegnano che l’essere vivente eterno assume un corpo composto di elementi materiali. Leggiamo qui che un’anima entrò nel corpo generato dall’unione del re Citraketu con sua moglie. A dire il vero non era il loro figlio.
L’essere vivente è il figlio eterno di Dio, la Persona Suprema, ma poiché desidera conoscere il piacere in questo mondo materiale, Dio gli dà la possibilità di assumere differenti corpi. Tuttavia, l’essere puro non ha alcun legame reale col corpo materiale che riceve dai suoi genitori. Ecco perché l’anima, che era ritornata nel corpo del figlio di Citraketu, rifiutava freddamente di riconoscere che il re e la regina erano i suoi genitori.
L’anima continuò: “In questo mondo materiale, paragonabile a un fiume dal corso impetuoso, col passare del tempo tutti gli uomini diventano amici, parenti e nemici. Essi agiscono anche nella neutralità e in altre relazioni di vario genere. Tuttavia, malgrado questi rapporti, nessuno è legato a qualcun altro per sempre.”

Citraketu si affliggeva per la morte di suo figlio, ma avrebbe potuto vedere la cosa da un’ altra angolazione: “Questo essere vivente potrebbe essere stato mio nemico nella mia vita precedente, e ora che è diventato mio figlio mi lascia prematuramente al solo scopo di farmi soffrire.” Infatti, non potrebbe il re considerare il figlio morto come un vecchio nemico e, anziché piangere, rallegrarsi della morte di un nemico?
L’essere vivente nel corpo del bambino continuò: “Come l’oro e altre monete di scambio circolano costantemente da un luogo all’altro a causa delle diverse transazioni commerciali, così l’essere vivente, a causa del suo karma, erra per l’universo intero; trasportato nel seme di un padre dopo l’altro, egli viene immesso nei vari corpi, in differenti specie di vita.”

Come spiega la Bhagavad-gita, l’essere vivente non nasce da un padre e da una madre; la sua vera identità è completamente distinta da quella dei suoi cosiddetti genitori. Per le leggi della natura, l’anima è costretta a entrare nel liquido seminale di un padre e ad essere introdotta nel grembo di una madre. Essa non può direttamente scegliere suo padre; il suo destino è automaticamente determinato dalle attività svolte nelle vite anteriori. La legge del karma la obbliga quindi ad accettare diversi genitori, proprio come una merce è comprata e venduta.

Talvolta l’essere vivente trova rifugio presso genitori che appartengono alla specie animale, talvolta presso un padre e una madre nella specie umana. A volte accetta un padre e una madre tra i volatili, e a volte accetta un padre e una madre tra gli esseri celesti sui pianeti superiori.
Nel suo trasmigrare attraverso differenti corpi, siano essi umani, animali, vegetali o di esseri celesti, l’anima deve avere un padre e una madre. Questo fatto non presenta alcuna difficoltà; ma sarà molto più difficile ottenere un padre spirituale, un maestro spirituale autentico.
Il dovere di ogni essere umano è dunque quello di cercare un maestro spirituale, poiché sotto la sua direzione ci si può liberare dal ciclo della reincarnazione e tornare alla nostra dimora originale nel mondo spirituale.

L’anima pura continuò: “L’essere vivente è eterno e non ha alcun legame con i suoi cosiddetti genitori. Si crede erroneamente loro figlio e si comporta affettuosamente con loro, tuttavia, con la morte questo legame è spezzato.
Sapendo ciò, nessuno dovrebbe essere coinvolto in false gioie e in falsi dolori. L’essere individuale è eterno e indistruttibile; non ha né inizio né fine, e nemmeno nasce o muore.
Qualitativamente, l’essere vivente è uguale al Signore Supremo: entrambi possiedono una natura spirituale. Tuttavia, a causa della sua dimensione infinitesimale, l’essere vivente è incline a essere vittima dell’illusione esercitata dall’energia materiale. Egli si crea così dei corpi che dovrà assumere in funzione dei suoi diversi desideri e delle sue diverse attività”.

I Veda ci insegnano che l’anima è responsabile delle sue vite in questo mondo materiale dove, prigioniera del ciclo delle reincarnazioni, passa da un corpo materiale a un altro. Se lo desidera l’anima può continuare a soffrire nella prigione dell’esistenza materiale, oppure può ritornare alla sua dimora originale nel mondo spirituale.
Sebbene Dio, servendoSi dell’energia materiale, faccia in modo di assegnare agli esseri viventi i corpi che desiderano, il Signore desidera in realtà che le anime condizionate sfuggano alla giostra punitiva di questo mondo materiale e facciano ritorno alla loro dimora originale, accanto a Sé.

Improvvisamente il bambino tacque. L’anima pura lasciò il suo corpo ed esso ricadde inanimato. Citraketu e gli altri parenti erano sbalorditi. Essi spezzarono le catene del loro affetto e cessarono ogni lamento. Compirono poi i riti funebri e cremarono i corpo.
Le altre regine, compagne di Kritadyuti, quelle che avevano avvelenato il bambino, provarono grande vergogna. Desolate esse ricordarono le istruzioni di Angira e rinunciarono al loro desiderio di avere figli. Seguendo le direttive dei sacerdoti brahmana esse si recarono sulle rive della Yamuna, il fiume sacro, dove si bagnarono e pregarono quotidianamente per espiare il loro peccato.

Poiché il re Citraketu e la sua regina possedevano ora un conoscenza spirituale perfetta, che comprende la scienza della reincarnazione, dimenticarono facilmente l’affetto che li aveva condotti al dolore, alla paura, al dispiacere e all’illusione. Sebbene l’attaccamento al corpo materiale sia molto difficile da superare, fu facile per loro perché poterono spezzare questo legame con la spada della conoscenza trascendentale.

Il principio del vuoto di Joseph Newton

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Ho letto un magnifico articolo su un blog che spesso segnalo, “passoinindia“. Quì si parla del principio del vuoto secondo le teorie fisiche di Newton, e si relaziona questo concetto con il distacco che dovrebbe essere operato da ogni praticante dello yoga nella vita di ogni giorno. Nessun commento da fare perchè l’articolo è fin troppo eloquente. 

 

Il principio del vuoto di Joseph Newton

Le cose inutili (e non necessariamente quelle senza una funzione bensì quelle di cui potremo fare a meno) sono entrate nella mia casa a comprimere insicurezze, restano nella mia casa in sordina, ormai invisibili, spesso dimenticate, se ne andranno dalla mia casa quando un giorno qualcuno di caro deciderà di trattenerne qualcuna (inutile) in mio ricordo, credendo che per me fosse importante. Buffo! Forse solo allora avranno davvero un ruolo… C’è un principio da seguire…… il principio del vuoto di Newton…..

https://www.youtube.com/watch?v=a82Upg5FTrQ

“Hai l’abitudine di accumulare oggetti inutili, credendo che un giorno, chi sa quando, ne avrai bisogno?
Hai l‘abitudine di accumulare denaro , solo per non spenderlo perché pensi che nel futuro potrà mancarti?
Hai l’abitudine di conservare vestiti, scarpe, mobili, utensili domestici ed altre cose della casa che già non usi da fa molto tempo?
E dentro di te…? Hai l’abitudine di conservare rimproveri, risentimenti, tristezze, paure ed altro?
Non farlo, è necessario che lasci uno spazio, un vuoto, affinché cose nuove arrivino alla tua vita.
È necessario che ti disfi di tutte le cose inutili che sono in te e nella tua vita, affinché la prosperità arrivi.
La forza di questo vuoto è quella che assorbirà ed attrarrà tutto quello che desideri.
Finché stai, materialmente o emozionalmente, caricando sentimenti vecchi ed inutili, non avrai spazio per nuove opportunità.
I beni devono circolare… Pulisci i cassetti, gli armadi, la stanza di arnesi, il garage…
Dà quello che non usi più…
Non sono gli oggetti conservati quelli che stagnano la tua vita… bensì il significato dell’atteggiamento di conservare…
Quando si conserva, si considera la possibilità di mancanza, di carenza… si crede che domani potrà mancare, e che non avrai maniera di coprire quelle necessità…
Con quell’idea, stai inviando due messaggi al tuo cervello e la tua vita: che non ti fidi del domani e che pensi che il nuovo e il migliore non sono per te, per questo motivo ti rallegri conservando cose vecchie ed inutili.

Disfati di quello che perse già il colore e la lucentezza… lascia entrare il nuovo in casa tua… e dentro te stesso.
E che la prosperità e la pace ti raggiungano presto….(J.N)

(dedicato a Elinepal, la blogger che fu il nostro primo contatto all’esordio di questo blog. Lei sollevò allora la questione….).

Il legame psiche-soma nella pratica dello yoga

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Il legame che intercorre tra psiche e soma, tra la nostra mente e il nostro corpo, è cosa nota sin dall’antichità. I latini sentenziavano “Mens sana in corpore sano”, e la tradizione dello yoga dall’oriente prima, la civiltà greca e l’evoluta civiltà araba poi, dimostrano quanto fosse importante la ricerca dell’armonia tra la mente e il corpo.

Nei praticanti di yoga questo legame indissolubile di psiche-soma è profondamente studiato. Per B.K.S.Iyengar  la pratica dello yoga è un viaggio che si svolge contemporaneamente dalla periferia verso il nostro centro interiore, e dal quel centro verso la  nostra periferia corporea. Una armonica simultaneità, ciclica e mai uguale nel tempo, con percezioni ogni volta sempre nuove e dalle mille delicate sfumature, che  lasciano intravedere la meravigliosa complessità del nostro essere profondo.

Chi ha vissuto l’esperienza di un corroborante shavasana (posizione di rilassamento), di una profonda seduta di pranayama, di asana con effetti introspettivi o della meditazione, sa cosa intendo dire. In quei momenti si vive il momento presente. La mente, dissolvendosi, diventa kalatita, al di là dello spazio-tempo: il tempo è come si restringesse e implodesse su sé stesso,  lasciando spazio ad una espansione della coscienza e a una accresciuta consapevolezza. In quei momenti si può avere la chiara percezione del delicato legame che intercorre tra psiche e soma, tanto è inequivocabilmente presente alla nostra coscienza.

A questo proposito segnalo un articolo interessante dal titolo Medicina psicosomatica: funziona. E la filosofia yoga l’aveva scoperta secoli fa. Gradirei avere un vostro feedback tramite i commenti a questo articolo, perché in quanto ricercatore ed insegnante di yoga sono per me importante materiale di verifica.

Neurofisiologia della meditazione

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Dhyana o meditazione è il settimo angha, o ramo, dell’ottuplice sentiero di Patanjali e in chi pratica lo yoga è un elemento da sviluppare accanto alla pratica degli asana.

Il grande rishi Patanjali aveva così strutturato l’Ashtanga Yoga od ottuplice sentiero: Yama, Nyama, Asana, Pranayama, Pratyahara, Dharana, Dhyana, Samadhi. Come si può notare, Dhyana viene dopo Pranayama (controllo del flusso del prana tramite il respiro), Prathyahara (il ritiro del flusso degli organi dei sensi verso l’interno) e Dharana (la concentrazione).

Nella tradizione del kriya yoga di Lahiri Mahasaya viene insegnato al praticante a regolare il flusso del prana vayu per renderlo calmo, con una quotidiana e regolare pratica del pranayama. Attraverso la pratica si placa il flusso tumultuoso di respiro e prana, ottenendo così gradualmente il Pratyahara, ovvero il ritiro della mente dai sensi  verso l’interno. Solo allora la mente non sarà trascinata come le foglie dal vento nei vortici delle attrazioni o repulsioni dei sensi: a quel punto la mente viene resa ekagrata, fissa cioè in un unico punto. È lo stadio di Dharana o concentrazione. E quando Dharana viene mantenuto yogicamente, come un filo di olio che scorre ininterrottamente da un recipiente all’altro, esso pian piano ci introduce allo stato di meditazione, o Dhyana.

Riflettete perciò su quanto sia sottile il lavoro che sottende la meditazione: stabilità e capacità di poter sedere in una postura comoda e stabile; controllo del flusso del prana per poter stabilizzare la mente; capacità di poter ritirare la mente dai sensi verso l’interno; mantenere la mente su un unico punto, concentrandola come si fa con i raggi solari convogliandoli in un punto con una lente d’ingrandimento; mantenere gradualmente  quel flusso di concentrazione per poi fluire con la luce del proprio essere più profondo, o Dhyana.

Scriverò altri post più approfonditi sui vari angha dell’ottuplice sentiero, per poterne avere  una visione anche alla luce delle pratiche meditative e per potervi lasciare ulteriori spunti per la vostra pratica e la vostra ricerca personale.

Aggiungo il link a un post di Yoga Sutra  un interessante blog che ho avuto la fortuna di incontrare e che condivido con tutti i sinceri ricercatori dello yoga: 4 studi scientifici su meditazione, sistema nervoso e circolazione. Tratta degli effetti meravigliosi sul sistema sul sistema nervoso quando si effettua anche un minimo di pratica meditativa.

Il significato del Pranam, il saluto indiano

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Secondo la tradizione kriya yoga l’energia vitale che scorre all’interno del nostro corpo verso l’alto nella spina dorsale e al cervello è chiamata prana. L’energia vitale che fluisce verso il basso e verso l’esterno dal cervello e dalla spina dorsale è chiamata apana.

Quando ci inchiniamo nel pranam (saluto) in avanti, così che il mento incontri il petto, mentre le nostre mani sono giunte sullo sterno, curviamo il nostro corpo in avanti, ed abbiamo più consapevolezza della nostra interezza corporea e mentale. Questo inoltre favorisce l’unione delle correnti di vita di prana e apana all’interno del corpo: ecco il senso profondo  dell’atto di fare pranam. Pranam nel senso yogico è quindi la forma più alta di pranayama.

Se notate, prana, pranayama e pranam hanno la stessa etimologia. Anche la parola prono, che indica il distendersi, ha la stessa radice indoeuropea. Quando prana e apana vengono riunificate dallo yogi in se stesso, ciò rappresenta lo stato di coscienza più elevato. E quando lo yogi ha conseguito questo stato d’armonizzazione col proprio Sé, ciò è conosciuto col termine di Yogastha: radicato nell’unione interna (yoga).

Quando il Signore Krishna manifestò la sua cosmica coscienza al discepolo Arjuna, come descritto nella Bhagavadgītā, lo fece da quello stato di Yogastha, e aiutò Arjuna a conseguire il medesimo stato di coscienza. A quel punto, la comunicazione tra i due era corretta e comprensibile.

Pranam indica che si dovrebbe essere in uno stato meditativo. Quando voi parlate a qualcuno da tale stato di coscienza, e quando egli si trova nello stesso stato, allora si stabilisce la corretta comunicazione. Praticate dunque l’introspezione, grazie alla quale conoscerete il significato recondito di ogni cosa.