Cari amici dello yoga dopo la breve pausa estiva di riposo dalle fatiche invernali, eccoci pronti a metter mano all’aratro della nostra pratica, per preparare il terreno della nostra coscienza alla semina degli insegnamenti yogici, antichi come le montagne ma pur sempre attuali. Nei post precedenti ho spesso evidenziato che la pratica dello yoga non consiste solo ed esclusivamente nell’esecuzione degli asana, e che la pratica degli asana non si svolge solo sul piano fisico, ma coinvolge creativamente molti aspetti della nostra coscienza.
Iyengar nella spiegazione degli Yoga Sutra indica con sadhana (la pratica) tutti i petali del raro fiore dello yoga, che comprendono la sfera fisica, fisiologica, energetica, mentale, intellettuale e spirituale. Il sadhana deve essere condotto con applicazione costante, consapevolezza e devozione. secondo la tradizione dello yoga Anche i livelli di un praticante si dividono dal livello mrdu (morbido) al livello tivra-samvegin (supremamente intenso), dove una naturale scala evolutiva di trasformazione e di sfumature intermedie si estende dal basso in alto. Oggi voglio approfondire i tre principi cardine della nostra pratica yoga.
Perché si pratica: scopo ed obiettivo della sadhana
Dobbiamo sempre aver chiaro il perché pratichiamo una determinata sequenza di posizioni o un certo asana, e mai dimenticarlo durante la nostra pratica. “Mai perdere la visione del Sé”, recita un antico adagio dello yoga. Dobbiamo inoltre avere chiaro quale sia lo scopo effettivo della pratica: apprendere? Consolidare? Studiare? Raggiungere la maturità dell’asana?
Lo stato d’animo personale
Anche l’approccio alla pratica è molto importante. La Bhagavad Gita insegna che i frutti della nostra pratica dipendono dallo spirito col quale noi intraprendiamo la pratica stessa. Nel Linga Maha Purana un verso declama “L’aspirante deve sempre intraprendere la pratica con un buon umore”.
La sequenza appropriata, o Vinyasa
L’etimologia della parola Vinyasa indica “ordine”, “disposizione”, “posizionare”, “posizione” (degli arti), “disporre”, “piazzare”. Probabilmente il termine veniva usato nell’antica arte della gioielleria, come l’ arte di disporre le gemme, e il concetto raggiunse le scritture dello yoga grazie alla Mimamsa Darsana. E’ indispensabile una sequenzialità di asana appropriata per arrivare all’asana desiderato, scegliendo un giusto metodo con il quale ottenere attraverso quell’asana gli effetti desiderati o gli stati di coscienza suscitati dall’asana stessa. Iyengar definisce Vinyasa come “una sequenza per raggiungere lo stato finale dell’asana dove la mente e l’intelligenza, uniti armoniosamente con l’energia (prana) e la consapevolezza cosciente (prajna), vengono costruiti in sequenza e gradualmente all’interno del sistema di pratica.” Vamana Rishi era solito ripetere “Oh yogi, mai accingersi alla pratica senza una sequenza appropriata (di asana)”.
I tre stadi della pratica di un asana
Ogni yogasana deve essere eseguito nel rispetto dei “tre stadi della pratica di un asana”. Così gli yogi avevano diviso la pratica di un asana in tre stadi, prendendo a prestito dal Sad Linga (commentari vedici) i termini per il primo e terzo stadio:
1) Upakrama o inizio dell’asana: come entrare nell’asana. Vacaspati Misra, Vijnana Bhiksu and Bhoja Raja, antichi studiosi delle scritture, ritengono che la parola asana abbia la propria radice etimologica nella parola “as” (sièdere) e la definiscono come asyate nena, ovvero la procedura e il modo attraverso il quale si entra nella posizione. Sfortunatamente la maggior parte dei praticanti dell’Iyengar yoga si sentono coinvolti solamente in questo stadio e su un livello puramente fisico. Prashant Iyengar insiste spesso sul fatto che upakrama deve educare il corpo, la mente, la consapevolezza e l’intelligenza ad entrare nella posizione e a raggiungere lo scopo dell’asana stessa.
2) Sthiti, ovvero il mantenimento dell’asana: come stare nella posizione. Questo è lo stadio dove si creano gli effetti profondi dell’asana. Quando Iyengar praticava si rimaneva stupefatti nel vedere la stabilità e il profondo stato introspettivo con i quali eseguiva ogni postura. Si può considerare questo stadio asana-jaya, o conquista della posizione.
3) Upasamhara o conclusione dell’asana, la ricapitolazione o come chiudere l’asana.
Con lo studio onesto di questi stadi dell’asana e con l’applicazione dei tre punti cardine della pratica, avremo modo di vivificare continuamente ciò che i nostri insegnanti ci tramandano. La nostra pratica diverrà più profonda e matura, e gli asana inizieranno a raccontare nel nostro Cuore la storia antica ma sempre nuova di questa Vidya suprema: lo yoga. Buona pratica a voi tutti!