Per l’Ayurveda la stagione invernale, caratterizzata da freddo, neve e giornate buie e brevi, viene associata al dosha kapha le cui qualità che lo contraddistinguono sono pesantezza, freddo, umidità, lentezza, staticità. Kapha dosha,formato dagli elementi acqua e terra, domina in questo periodo sia nell’ambiente che l’individuo stesso con conseguente aumento di liquidi come muco e catarro, abbondanti secrezioni nasali e lacrimazioni.
Le articolazioni tendono ad essere rigide, e nella pratica dello yoga dobbiamo fare un buon riscaldamento per accedere ad asana come archi, rotazioni e intensi stiramenti in avanti. Notate come in primavera e in estate la pratica è diversa. Se in inverno non riscaldiamo a dovere i l nostro corpo col fuoco di una accurata pratica, rischiamo di farci male, perchè tutto è più rallentato, Kapha dosha procura letargia e lentezza in questo periodo del freddo invernale.
Riuscire a comprendere i ritmi ai quali la Natura ci sottopone è come per un surfer cavalcare al meglio l’onda con la sua tavola, sfruttandone tutta l’energia specifica in maniera ottimale. Per cui inverno equivale a freddo e bisogno di maggior calore per sciogliere questa pesantezza, umidità e conseguente lentezza che lo accompagnano.
Quando si scatena un raffreddore, è consigliabile adottare una alimentazione più leggera, limitare i latticini, evitare le bevande fredde. In ayurveda è molto utilizzato il trikatu che contribuisce a sciogliere il muco ad ogni livello. È consigliato inoltre effettuare il lavaggio nasale (jala neti) con acqua tiepida salata almeno una volta al giorno, preferibilmente la mattina appena svegli, con la lota, tipico strumento utilizzato dagli yogi per purificare i condotti respiratori nasali. Che altro dire ancora? Riscaldatevi al fuoco delle pratiche yogiche!
Cinque minuti per gustare nel nostro shavasana, il rilassamento dopo la pratica dello yoga, le antiche melodie senza tempo di un popolo con tradizioni a noi ancora sconosciute: i mongoli. Questi suoni entrano come un vento tiepido nelle profondità della nostra anima, facendo vibrare le corde del nostro cuore come le arpe eoliche degli antichi Celti. Suoni e melodie antiche come l’Universo, riscoperte nell’infinita cassa di risonanza del Cosmo per riconnettere gli “entronauti” di ogni epoca con la Luce dentro di sé. Utilizzateli per il vostro shavasana, per una breve meditazione, per sciogliere i nodi del Cuore e per ricollegarsi con il Sé infinito.
La melodia del vento È la canzone che racconta il ritmo del vento, dell’andatura del cavallo, dell’avvicendarsi di laghi e foreste. Dall’imitazione dei suoni della natura nasce a sua volta l’hoomiy, canto di gola, la raffinata tecnica vocale che consente di riprodurre il fruscio delle fronde, i versi degli uccelli, lo scrosciare dei fiumi. Con uno spericolato alternarsi di respirazione addominale, canto di naso e di gola e uso del torace.
Le anime mistiche ameranno la produzione sacra: buddhista (mutuata dal Tibet lamaista) e sciamanica, solitamente accompagnata dal tamburo, che simboleggia la cavalcatura utilizzata nel rito. Ma tutti si lasceranno commuovere dal khoomei, il canto armonico e persuasivo che i nomadi usano per sussurrare alle loro greggi. Gorgheggiare agli animali? Sì, e se ne è fatto anche un film di successo, “La storia del cammello che piange.” Perché accade che un cucciolo sia rifiutatodalla madre. E accade che il pastore, cantando di gola, modulando la voce, sussurrando melodie alla madre fedifraga, alla fine la convinca a prendersi cura del negletto piccino. Un trionfo della pastorizia mongola e del potere del canto.A tanta ricchezza sonora corrisponde un adeguato campionario di strumenti musicali.
Su tutti domina il morin khuur (in alto a destra), strumento nazionale del Paese, insostituibile accompagnamento dell’urtyn duu, entrato nel 2010 nel Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco, insieme al khoomi, il canto di gola. Simile a una viola da gamba, si suona tirando o spingendo di lato le corde (a differenza degli strumenti occidentali, in cui le corde si schiacciano e si pizzicano). Della stessa famiglia fanno parte l’Ikh Khuur (contrabbasso), l’Huu-Chir (violino), la Yatga (cetra), lo Yoo-Chin (salterio a percussione), il Tobs Khuur e lo Shanz (liuto).
Gli strumenti a fiato si vantano del Limbe, secondo per importanza solo al Morin Khuur. Simile al flauto traverso, possono suonarlo solo gli uomini, che adottano una tecnica di respirazione particolarmente difficoltosa, detta “circolare”, con cui si soffia nello strumento e contemporaneamente si inspira nuova aria. Meno ostici da affrontare lo Tsuur (flauto dritto), il Bishur (oboe), l’Ever Buree (clarinetto), il Rapal (tromba d’ottone), il Ganlin (o Gandan, o Dun, tromba corta usata per i rituali buddisti), il Buri (colossale tromba in rame rosso lunga quasi cinque metri).
Di derivazione cinese o tibetana le percussioni: Rnga (grande tamburo orizzontale), Damaru (tamburo a clessidra), Khets (tamburello con sonagli), Tsan (piatti), Gong, Aman Khhur (scacciapensieri). Tra tanta musica tradizionale, un “orecchio di riguardo” la merita anche la musica classica occidentale. Nel 1957 è stata istituita la Filarmonica Nazionale, che ha fatto conoscere e amare ai mongoli le composizioni occidentali più famose.
L’apoteosi ha avuto luogo nel 1980, quando il maestro Ts. Namsraijav ha commosso il suo popolo con un’impeccabile esecuzione della Nona Sinfonia di Beethoven. Altro momento grandioso il 3 maggio 2003: per ricordare l’anniversario della nascita di Gengis Khan (840 anni, e il suo mito è ancora fresco come una rosa) il più grande compositore mongolo, B. Sharav, ha rappresentato al Teatro Nazionale dell’Opera e del Balletto la sua opera Chinggis. Forma sonora occidentale per cantare il più grande eroe asiatico.
A proposito di canto: le capriole vocali e le strepitose qualità richieste al più normale dei mongoli per intonare una canzoncina fanno sì che molti di loro si avventurino in Italia a studiare lirica. Gioco da ragazzi, per le loro ugole altamente esercitate!
Il post di oggi è tratto da un piccolo libro intitolato “Libero ovunque tu sia” del monaco vietnamita Thich Hath Han, dove il Maestro affronta una questione di vitale importanza nel sentiero di uno yogi: la capacità di accogliere la propria rabbia e scioglierla come neve al sole.
Nella vita quotidiana affrontiamo ostacoli di ogni genere e il confronto con la nostra rabbia e di chi ci circonda è una sfida perpetua, perché questo ostacolo ci rende schiavi della nostra natura inferiore, impedendoci di vivere nel momento presente, qui e ora, con tutto ciò che c’è. La nostra mente vive spesso nei rimpianti e risentimenti del passato o nelle paure e angosce del futuro.
Questa catena invisibile ma resistente, ci preclude di poter ammirare lo spettacolo colorito che è la vita di tutti i giorni, di farne parte e di poter condividere la Luce di quei colori con chi ci sta attorno. Si diventa ciechi e sordi agli infiniti messaggi di abbondanza che l’Universo continuamente ci invia, perché il fuoco della rabbia incenerisce i nostri cuori. Tich Nath Han in queste righe, ci suggerisce un semplice ma potente metodo che è quello dell’osservazione del nostro respiro. Respirare è la prima ed ultima azione che un essere vivente farà.
Lavorando sul respiro, abbiamo la chiave per accedere all’osservazione attenta di noi stessi, di quella mente che si incendia al minimo turbamento esterno. Per impedire che divampi nelle fiamme dell’ira, bagnamola con le gocce di rugiada della Pace. Buona pratica di consapevolezza.
L’energia che libera
“Per prendermi cura della mia rabbia innanzitutto torno al respiro e guardo profondamente dentro di me. Mi rendo immediatamente conto che in me c’è un’energia chiamata rabbia; poi riconosco di avere bisogno di un altro tipo di energia che si prenda cura della rabbia e la invito a sorgere e a svolgere questo compito. Questa seconda energia è chiamata presenza mentale.
Ognuno di noi ha in sé il seme della presenza mentale. Se sappiamo entrare in contatto con quel seme possiamo iniziare a generare l’energia della presenza mentale; con la sua energia ci possiamo prendere cura dell’energia della rabbia. La presenza mentale è un tipo dienergia che ci aiuta ad essere consapevoli di ciò che accade. Siamo tutti capaci di essere presenti; chi pratica ogni giorno lo è più di chi non lo fa.
Anche coloro che non praticano hanno in sé il seme della presenza mentale, ma dotato di un’energia molto debole. Anche una pratica di soli tre giorni fa aumentare l’energia della presenza mentale. Può esserci presenza mentale in tutto ciò che si fa. Se bevendo un bicchiere d’acqua sai che in quel momento stai bevendo dell’acqua e non pensi ad altro, allora stai bevendo in presenza mentale, in consapevolezza. Se concentri sull’acqua tutto il tuo essere, corpo e mente, in te c’è consapevolezza e concentrazione e l’azione del bere può essere descritta come un “bere consapevole”. Bevi non soltanto con la bocca ma con tutto il corpo e in piena consapevolezza. Siamo tutti capaci di bere dell’acqua in consapevolezza. Così mi è stato insegnato a fare, da novizio.
Puoi anche camminare in presenza mentale, dovunque tu sia. Quando cammini, concentra la tua attenzione sull’atto del camminare: renditi consapevole di ogni passo che fai e non pensare ad altro. Si chiama “camminare in consapevolezza”: è sorprendente quanto sia efficace. Con la pratica, poi, comincerai a camminare in modo che ogni passo ti darà solidità, libertà e dignità, ti renderà padrone di te stesso. Ogni volta che devo andare da un posto a un altro pratico la meditazione camminata, anche se mi sposto solo di uno o due metri. Salendo le scale, pratico la meditazione camminata; scendendo le scale, pratico la meditazione camminata; salendo su un aereo, pratico la meditazione camminata; andando dalla mia stanza al bagno, pratico la meditazione camminata; andando in cucina, pratico la meditazione camminata. Non ho un altro modo di camminare, soltanto il camminare in consapevolezza: mi aiuta molto. Mi dà trasformazione, guarigione e gioia.
Quando mangiate potete praticare la presenza mentale. Mangiare in consapevolezza può darvi molta gioia e felicità. Nella mia tradi- zione, mangiare è una pratica profonda. Prima di tutto ci sediamo in una posizione stabile e guardiamo il cibo; gli sorridiamo, consapevolmente. Lo consideriamo un ambasciatore che arriva dal cielo e dalla Terra. Guardando un fagiolino riesco a vedervi fluttuare una nuvola, a vedervi la pioggia e il sole; mi rendo conto che quel fagiolino è parte della Terra e del cielo.Quando mordo un fagiolino, sono consapevole che quello che ho messo in bocca è un fagiolino. Non ho nient’altro in bocca, non il mio dispiacere né la mia paura: quando mastico un fagiolino mi limito a masticare un fagiolino, non i miei progetti o la mia rabbia.
Mastico con molta attenzione, con il cento per cento di me stesso, e sento la connessione con il cielo, la Terra, i contadini che coltivano il cibo e le persone che lo cucinano. Mangiando in questo modo sento che è possibile essere solidi, liberi, felici. Il pasto non nutre soltanto il mio corpo ma anche la mia anima, la mia coscienza e il mio spirito.”
Piccoli estratti del Maestro bulgaro Peter Deunov di un antico ma sempre nuovo insegnamento: il Dharma. Come diceva il Mahatma Gandhi“Satyam nasti paro dharma” e cioè “Non c’è Dharma più alto della Verità”. La Verità ha un suo potere intrinseco strettamente collegato con la libertà interiore: più Verità viene riversata nelle nostre vite di ogni giorno, più acquisiamo il potere di liberarci dalle catene dell’ego, che ci tiene avvinti a vecchi schemi di pensieri, sentimenti e azioni che ci impediscono di rinnovarci e trovare la salute del corpo, la pace della mente e la Luce dell’Anima Universale. Non a caso Rishi Patanjali cita Satya come uno dei Yama fondamentali per la pratica dello yoga. Ecco perché non potremo mai scindere la pratica di ogni tipo di yoga (asana, pranayama, meditazione) dall’osservare i Yama e i Niyama. Sarebbe come, per una farfalla, provare a volare con le ali umide: non potrebbe librarsi nel tepore del Sole primaverile e goderne appieno. Buon ringiovanimento!
“L’amore rinnova la vita delle cellule… Se voi sapeste come soffrire e affrontare le prove, ringiovanireste. Voi invecchiate perché sfuggite alle vostre sofferenze senza apprezzarle, ma anche se non apprezzate la gioia invecchierete prematuramente. Così sarà anche se non avete ringraziato per tutto il bene che vi si è presentato. Il ringiovanimento è un processo fisico interiore.
Nel cervello e nel sistema simpatico, esistono ghiandole specifiche che l’uomo non è ancora capace di dirigere. Gli scienziati dei nostri giorni non conoscono ancora il ruolo di queste ghiandole; in futuro, quando comprenderanno il loro funzionamento, potranno utilizzarle come mezzo di ringiovanimento.
Non trattenete nel vostro animo i vostri difetti e neppure quelli degli altri: anche questo è un metodo di ringiovanimento. Soprattutto non trattenete quelli degli altri poiché vi contaminano. Ogni mattina, alzandovi, prendete il lobo delle vostre orecchie e massaggiate leggermente l’osso dietro l’orecchio per intensificare la circolazione dell’energia vitale.
Il digiuno è lodato per il rinnovamento dell’organismo. Dopo il digiuno, usate il più a lungo possibile un unico alimento al giorno che non richieda molta energia per la digestione e che non ecciti il vostro appetito. Così i vostri polmoni riceveranno maggior prana dall’aria e dall’acqua, e voi approfitterete al meglio dei succhi contenuti nel cibo.
Chi e giovane? È giovane chi è pronto in ogni momento ad aiutare gli altri; è giovane chi vive tutte le proprie difficoltà e sofferenze con gioia, chi studia, chi non mente, il coraggioso che lavora, chi è giusto e coscienzioso.”