Uscire dalla bolla della nostra vita

 

 

 

Cari amici dello Yoga nel post di oggi voglio riportare le parole di Prashant Iyengar, figlio di B.K.S. Iyengar sull’importanza di usare le azioni corporee nella nostra pratica, per svincolarci dai legami dell’ego e scendere profondamente nel santuario delle nostre anime, così da poter capire ancor più profondamente che lo Yoga non è una semplice e meccanica ripetizione di posizioni, ma un prezioso strumento donatoci dai saggi per poter effettuare Swadhyaya, la conoscenza di noi stessi, in un processo a spirale che si dipana all’Infinito, dove il vaso della nostra consapevolezza diviene gradualmente sempre più vasto. Vi auguro una buona pratica, ricordando sempre le parole di Prashant.

 

“Le qualità e le identità che attribuiamo a noi stessi come – Io sono un indiano/americano/cinese oppure -sono un uomo, una donna, vecchio, in salute, malato, ecc. sono attrazioni gravitazionali nei confronti del nostro corpo. Agiscono come parassiti. Di solito viviamo la nostra vita come in una bolla. Questa bolla ci limita quando ci aggrappiamo a delle particolari qualità che esercitano la loro influenza su di noi. Attraverso i Sarira-Kriyas (le azioni corporee) di pura coordinazione voi lasciate andare la presa di questa bolla. Entriamo in una dimensione di noi stessi che è universale e onnipervadente.

Ci sono molti Sarira (corpo) Kriyas (azioni) che posso affrancarci da questo pesante fardello. Per esempio, esalare con consapevolezza dai lobi del vostro cervello, dai muscoli della vostra schiena, dalle vostre pelvi, dai vostri occhi. In similimomenti di coordinazione, scoprirete di avere una differente esperienza di voi stessi. Lo yoga non riguarda(solo) l’azione delle posture: girate il vostro piede a sinistro in dentro e il vostro piede destro in fuori. Ma è usare i Sarira Kriyas per entrare nel santuario all’interno di voi stessi, che è Universale.”

Fonte:Traduzione da una classe di Prashant Iyengar del 09/02/2017, RIMYI, a cura di Zoe Stewart e Bobby Clennell.

Rudra Vina: lo strumento del Signore Narada Muni

 

 

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Cari amici dello yoga, il post di oggi è dedicato ad uno strumento indiano chiamato Rudra Vina. Nei miei frequenti viaggi in India ho assistito a dei bajan e a concerti di assolo, dove le note struggenti di questo divino strumento vibravano melodiosamente nei più profondi recessi dell’anima. La Vina è considerata uno tra i più antichi strumenti indiani.

La Rudra Vina e la  sono provenienti dalle regioni del Sud dell’India mentre la Vichitra Vina proviene dalla cultura industana del nord dell’India. Il nome deriva da un’arpa dell’antico Egitto, il Bin. La Vina è uno strumento molto decorativo: è spesso riccamente scolpita e decorata in avorio, oro e argento. La forma è derivata da una cetra a bastone ed è in genere caratterizzata da un manico lungo e largo che costituisce l’asse dello strumento, da un gran numero di capotasti e dalla presenza di risuonatori, in genere due zucche svuotate.

La Rudra Vina e la Saraswati Vina possiedono sette corde di cui quattro da tocco e tre che si allungano sulla parte sinistra del manico. Le corde non sono mai pizzicate da un plettro, ma soltanto dalle unghie del musicista che vengono lasciate crescere lunghissime. La Vichitra (“strana”) Vina è completamente priva di tasti ed è suonata poggiata in posizione orizzontale facendo scorrere sulle corde una palla di vetro o di pietra tenuta nella mano sinistra; emette un suono grave.

Nel Mahabarata Narada Muni viene descritto come grande esperto di questo mistico strumento. Grande saggio, figlio di Brahma, viaggia costantemente nei tre mondi allo scopo di diffondere le glorie di Krishna, cantando e suonando la sua Vina. Grazie a poteri speciali, è in grado di viaggiare per tutti i pianeti sia materiali che spirituali. E’ uno dei 12 Mahajana. Dedico questo brano a tutti i praticanti dello yoga, affinché possano goderne durante le loro pratiche.

 

 

 

Karuna, la Compassione.

 

La parola compassione ha assunto un significato dispregiativo e viene associata alla carità o alla pena. Vale lo stesso per la parola “autocommiserazione”, che richiama alla mente il vittimismo. Niente di più lontano dall’essenza di questi concetti, che, invece di promuovere un’immagine deteriorata dell’altro o di se stessi, la esaltano.

Ne è prova il successo della terapia incentrata sulla compassione. Come indica il nome stesso, si tratta di un intervento terapeutico che vede nella compassione un mezzo per migliorare la situazione di molte persone che soffrono. È consigliata in particolare per chi è molto critico con se stesso o con gli altri.dal latino: cum insieme patior soffro.

La parola compassione scaturisce la sua etimologia dal latino CUM insieme e PATIOR, soffro. Nei secoli, la parola compassione prende forma sul concetto di pietà : una pietà che è quasi disprezzo. Eppure la sua radice, il significato originale dei suoi componenti è tanto più nobile, di respiro tanto più ampio.

La compassione è la partecipazione alla sofferenza dell’altro. Non un sentimento di pena che va dall’alto in basso. Si parla di una comunione intima e difficilissima con un dolore che non nasce come proprio, ma che se percorsa porta ad un’unità ben più profonda e pura di ogni altro sentimento che leghi gli umani. E’ la manifestazione di un tipo di amore incondizionato che strutturalmente non può chiedere niente in cambio. Ed è la testa di ponte per una comunione autentica non solo di sofferenza, ma anche di gioia vitale, di entusiasmo.

Ne è prova il successo della terapia incentrata sulla compassione. Come indica il nome stesso, si tratta di un intervento terapeutico che vede nella compassione un mezzo per migliorare la situazione di molte persone che soffrono. È consigliata in particolare per chi è molto critico con se stesso o con gli altri.

L’aspetto più interessante di questa innovativa terapia è che la sua efficacia è stata scientificamente dimostrata in laboratorio, ovvero è stato dimostrato che la compassione può essere appresa e allenata. Ed è anche stato sottolineato che, nel farlo, il cervello cambia e migliora. Si è riscontrato, infatti, che essere compassionevoli aumenta la serenità, l’allegria e la motivazione in varie aree della nostra vita.

Un esperimento sulla compassione

Wisconsin, negli Stati Uniti. Dopodiché venne pubblicato sulla rivista Psychological Science. I responsabili dello L’esperimento è stato realizzato presso il Center for Investigating Healthy Minds, dell’Università del studio hanno fatto allenare un gruppo di volontari ad una forma di meditazione chiamato “meditazione compassionevole” o “Tonglen”.

Questo tipo di meditazione sfrutta una tecnica basata sull’identificazione e sulla comprensione del dolore negli altri esseri umani. Il tutto va combinato con esercizi di respirazione: quando inspiriamo, visualizziamo la sofferenza altrui e la interiorizziamo; quando espiriamo, ci ritroviamo in uno stato di benessere che irradiamo all’esterno e, dunque, a chi ci circonda.

Gli studiosi chiesero ai partecipanti di immaginare qualcuno che stesse soffrendo e di desiderare di eliminare tale dolore. Potevano aiutarsi con frasi come “ti auguro di liberarti di questo dolore”, “ti auguro di essere felice” e altre espressioni di questo genere. In un primo momento, realizzarono tale esercizio pensando prima alle persone care e poi a sconosciuti. Alla fine invece, dovettero farlo con qualcuno con cui erano in conflitto.

I ricercatori monitoravano i cervelli dei partecipanti attraverso la risonanza magnetica funzionale, prima e dopo l’allenamento. In questo modo, è stato possibile dimostrare i cambiamenti cerebrali verificatesi nei volontari. In particolare, vi era stato un incremento dell’attività nella corteccia parietale inferiore e in altre zone. Questo sottolineò che l’empatia, la compassione e la bontà potevano svilupparsi come un muscolo.

La compassione e il benessere dell’individuo

prospettiva rilassata e positiva. Piuttosto, ogni avvenimento si converte in una battaglia dove l’importante è prevalere.

La terapia focalizzata sulla compassione allena l’abilità di percepire la sofferenza altrui e di desiderarne la guarigione. Allo stesso modo, insegna che questo esercizio deve essere applicato anche e soprattutto a se stessi. Essere auto-compassionevole È frequente che una persona estremamente critica con gli altri lo sia anche con se stessa; e viceversa, naturalmente. Sono casi in cui l’individuo si focalizza in maniera esagerata sul suo ego. Questo gli impedisce di provare compassione per gli altri, ma anche per se stesso. È un processo che implica molta sofferenza, poiché si prova un orgoglio smisurato che non permette di vedere la vita da una non significa provare pena per se stessi né piangere poiché ci si sente inferiori o incapaci. Si tratta di imparare a non colpevolizzarci per i nostri errori, i nostri sbagli o le nostre sviste; di non giudicarci in modo troppo rigoroso, col vantaggio di conoscere il risultato.

I popoli dell’oriente praticano la compassione di sé e degli altri da migliaia di anni ormai. La terapia focalizzata sulla compassione fa capo a principi buddisti, ma ha anche elementi delle neuroscienze. Nell’esperimento già menzionato, è stato dimostrato anche che, allenando la compassione, il cervello secerne ossitocina, il cosiddetto “ormone della felicità”. Si verificano anche dei cambiamenti a livello di insula, ippocampo e ipofisi. Questo accresce nell’individuo una sensazione di tranquillità, sicurezza e benessere.

Vi sono molti messaggi nel mondo attuale che ci spronano ad agire in funzione della competenza e del successo. Questo si è tradotto in un peso enorme sulle spalle di molti. Una condizione che, prima o poi, sopraffa l’individuo e lo porta a provare ansia e depressione. La terapia incentrata sulla compassione è un richiamo a ristabilire la bontà come il valore umano per eccellenza e sostiene che tale bontà debba iniziare dal trattamento che ciascuno riserva a se stesso. La compassione apre il cuore e ci rende più felici Quando ci preoccupiamo per qualcuno che ne ha bisogno, stiamo compiacendo cuore e stiamo offrendo vera compassione per alleviare una sofferenza.

 

“Ogni vero e puro amore è compassione, e ogni amore che non sia compassione è egoismo”.  -Arthur Schopenhauer-

 

Fonte: Rielaborazione di un articolo sulla Compassione, tratto dal Buddhismo

 

La corretta relazione tra lo studente e il suo insegnante

“Lo scopo dell’asana non è tanto padroneggiare la posizione. Quanto su come usare la postura per capire e trasformare noi stessi”.

B.K.S.Iyengar

 

Cari amici dello yoga, il post di oggi è una riflessione sul corretto rapporto che dovrebbe instaurarsi tra lo studente che si avvicina alla pratica dello yoga e il suo insegnante, che si prodiga al meglio per travasare nella giusta maniera i concetti all’allievo nel tempo.

“Lo studente, proprio come l’insegnante, ha bisogno di praticare fedelmente. L’insegnante dedica TEMPO e SFORZO nel prepararsi per la classe e l’insegnamento che lo attendono: per ricevere il massimo dei benefici lo studente deve assumersi lo stesso impegno. Naturalmente, svariati eventi della vita potrebbero interrompere una pratica costante e regolare.  Qualcuno potrebbe interrompere per giorni o persino per settimane, senza una solida pratica: chi di noi non ha vissuto periodi simili? Ma alla fine la disciplina di una pratica regolare deve essere consolidata, se si vuole che lo yoga incida nel nostro livello più profondo.

Guruji B.K.S. Iyengar ripeteva il suo semplice ma profondo consiglio più e più volte, che è “PRATICA”. Solo attraverso la pratica può arrivare la comprensione. E dalla comprensione arriva l’intuizione, dall’intuizione arriva la saggezza, la libertà, vera essenza dell’arte dello yoga. Si dovrebbe sperimentare questo processo evolutivo senza fine su sé stessi. Questo processo non può essere appreso con nessun altro mezzo se non con la pratica. Una parte del lavoro dell’insegnante è ispirare lo studente a mantenere una pratica regolare, ma il compito dello studente e di prendere quell’energia di ispirazione e trasformarla nella realtà dell’azione

Dedico queste sacre parole del genio creativo di B.K.S. Iyengar ai miei insegnanti formatori, a Sandra Bertana mia attuale insegnante che con pazienta infinita sta donandomi l’arte dello yoga smussando con grande perizia i miei spigoli, e a tutti i miei ragazzi, affinché utilizzino queste parole per una crescita e comprensione creative nell’universo meraviglioso e sempre nuovo che è l’Iyengar yoga.

 

Fonte: Da un estratto di Pushpanjali, di B.K.S.Iyengar

Yoga come terapia genetica

 
Cari amici dello yoga oggi vi propongo un post tratto da un recente articolo  della giornalista Agnese Codignola, prolifica scrittrice  di molti articoli scientifici sul Sole 24 Ore, dove lo yoga viene trattato come studio genetico, e di come sia possibile frenare la degenarazione cellulare tipica dell’età senile applicando la pratica corretta e regolare dello Yoga unita ad uno stile di vita salutista. Non aggiungo né commenti né considerazioni, in quanto l’articolo parla chiaramente da sé. Un invito a riflettere…
“Lo Yoga modifica il genoma attraverso un meccanismo epigenetico, che cioè non interviene sulla struttura della doppia elica, ma sull’espressione dei geni che essa contiene.
Per questo assicura – a chi pratica con costanza e per periodi di tempo non troppo brevi – benefici duraturi e di una portata che nessuno, fino a pochi anni fa, riusciva a spiegare dal punto di vista biologico su cuore, cervello, apparato respiratorio e digestivo. Che vanno ad aggiungersi ai benefici immediati sull’elasticità di muscoli, tendini e giunture, sulla respirazione, sull’umore e su molti altri sintomi e disturbi.
La spiegazione tanto attesa è arrivata grazie a una metanalisi pubblicata su Frontiers in Immunology dai ricercatori delle Università britanniche di Coventry e Radbout, che hanno analizzato 11 studi effettuati nell’ultimo decennio che hanno coinvolto più di 800 persone, e dimostrato che ciò che lo yoga cambia in misura sostanziale è l’espressione di un gene chiamato Nuclear Factor kappa B o NF-kB.
Spiega Francesco Bottaccioli che ai complicati intrecci tra mente, sistema immunitario e sistema endocrino ha dedicato molti studi e diversi libri, presidente onorario della Società italiana di psico- neuro-endocrino-immunologia:
 
L’NF-kB è un gene cruciale, perché regola l’accensione o lo spegnimento di oltre 400 geni diversi legati all’infiammazione: per questo un effetto su di esso ha conseguenze molto ampie, come è evidente da tutto ciò che una pratica comporta su apparati e organi anche molto diversi, da quello respiratorio a quello muscolare, da quello digestivo a quello nervoso.
 
In condizioni normali, il gene serve per attivare tutta la cascata di eventi che, in risposta a uno stress di qualunque tipo, portano all’infiammazione, estrema difesa dell’organismo. Ma quando l’alimentazione è scorretta, ci si muove poco, si fuma, si vive in ambienti inquinati e si è stressati o malati, il gene può essere più attivato del dovuto, e portare così a uno stato di infiammazione cronica, o anche solo a una iperattivazione del sistema immunitario, condizioni che non conducono a nulla di buono.
Quello che si è scoperto negli ultimi anni, e questa metanalisi lo conferma aggiunge Bottaccioli – è che lo yoga, grazie a un’azione epigenetica, modula l’azione di NF-kB, cioè ne attenua la reattività, permettendo di prevenire alcune patologie e di iniziare a curarne altre, una volta che la persona abbia già cominciato a non sentirsi bene.
 
Alcuni degli studi presi in esame dai ricercatori inglesi, in effetti, mostrano che se si analizza lo stato epigenetico di persone che non praticano o non meditano e poi si ripetono i test dopo un certo periodo di pratica, la situazione cambia in maniera evidente, e misurabile.
E negli ultimi mesi altre ricerche vanno nella stessa direzione. Su tutte, una pubblicata da Obesity: gli endocrinologi dell’Università della Pennsylvania hanno dimostrato, su un’ottantina di donne obese o in sovrappeso, che,anche senza altri interventi per esempio sulla dieta e sullo stile di vita, la meditazione abbassa significativamente e stabilmente la glicemia a digiuno, un parametro che le persone a rischio diabete devono tenere sotto controllo.
Un altro lavoro, pubblicato dai ricercatori dell’Università di San Paolo, in Brasile, su Frontiers in Aging Neuroscience, mostra poi che il cervello degli yogi anziani, cioè di chi ha praticato per molti anni (almeno 8, an- che se la maggior parte dei 21 partecipanti ultrasessantenni praticava da 15) con regolarità, presenta una corteccia prefrontale (il cui assottigliamento è un fattore di rischio per la demenza) più spessa dei coetanei che non hanno mai seguito una delle discipline mente-corpo.
Per avere questi effetti, commenta Bottaccioli, ci vogliono pazienza e costanza:
“Queste modifiche riguardano l’espressione o la mancata espressione di alcuni geni, fenomeni che richiedono tempo. Questo significa che non basta praticare una tantum, ma è necessario intraprendere un percorso nel quale non solo si impara a farlo nel modo giusto, ma si dà anche il tempo all’organismo di effettuare le modifiche suggerite da una certa azione e poi goderne appieno i benefici. Inoltre, poiché si tratta sempre di effetti relativamente duraturi ma reversibili, è bene continuare per tutta la vita, scelta che del resto molti fanno proprio perché percepiscono che qualcosa migliora, e migliora costantemente “.
 
Naturalmente non basta praticare yoga, thai chi o meditare per mantenersi in salute: l’epigenetica risente dello stile di vita, dell’alimentazione, del contatto con sostanze nocive quali il fumo o l’inquinamento, e dell’attività fisica, che va mantenuta sempre e praticata con regolarità. Ma è indubbio che questo tipo di attività faccia aumentare la consapevolezza dello stato di salute e aiuti a focalizzarsi sul proprio stile di vita. Il che molto spesso si traduce in un cambiamento di abitudini sempre positivo, a sua volta dotato di un forte potere epigenetico.
La meditazione abbassa la glicemia a digiuno. Ma per i vantaggi serve costanza. Gli effetti benefici sono duraturi ma reversibili. Bisogna farlo per sempre.”