L’Iyengar yoga è ben noto per la sua precisione e per il timing mantenuto negli asana. Lo è anche per il focus potente che pone sulla sequenzialità degli asana. Come quando si racconta una bella storia, c’è una precisa modalità di iniziare mentalmente e fisicamente una pratica, o sessione, aumentandone l’intensità gradualmente, riarmonizzandola durante la sessione e diventando neutrali a fine sequenza.
Una sequenza altro non è che un collegamento tra asana, ma anche dei punti e delle azioni da seguire. Una buona sequenzialità di asana vi permette di estendervi ulteriormente guidando il vostro corpo verso ogni asana ma con l’approccio e le azioni prese dall’asana precedente. E una buona sequenza riporta la pratica dello yoga nella vostra vita. Lavorando regolarmente con lo yoga cambieranno gradualmente anche altri aspetti della vostra quotidianità: pratica delo Yoga e Vita sono strettamente interconnessi.
Ecco alcune sequenze con i nomi sanscriti, utili per il vostro studio e per capire il concetto di corretta sequenza dell’Iyengar yoga.
Il post di oggi parla della profondità degli asana indietro, o backbendings, della loro utilità e della potente energia che sprigionano a tutti i livelli: fisico, mentale e spirituale. Ci sono diciannove diamanti di saggezza, diciannove citazioni di B.K.S.Iyengar sui backbendings dove vengono date preziose indicazioni per migliorare la qualità della nostra pratica quotidiana e andare ancor più profondamente verso il nostro Cuore spirituale, come Iyengar stesso insegnava.
A queste diciannove citazioni ho aggiunto, come chiave visuale pratica, l’insegnamento di Ustrasana tratto da una lezione dell’insegnante senior Gabriella Giubilaro, mia formatrice nel teacher training che ho avuto la fortuna e il piacere di conoscere alla Convention di Yoga del 2002 a Montecatini, con Geeta Iyengar.
Devo a Gabriella l’impegno, la serietà e la grandissima forza d’animo che necessitano ad un insegnante per portare avanti la pratica e l’insegnamento dello yoga. Negli anni del mio teacher training mi ha forgiato corpo e mente nel fuoco della pratica, come un fabbro forgia il ferro: ogni volta che la rivedo è una occasione imperdibile per apprendere sfumature sempre più importanti sullo yoga. Dedico a te Gabriella questo post sugli archi, ricordando con quanta pazienza e forza mi hai corretto e guidato (e ancora continui a farlo) lungo questo sottile percorso di Vita che è lo Yoga Iyengar. GRAZIE di TUTTO…
Citazioni sugli archi, di B.K.S.Iyengar
“Gli archi non vengono insegnati nei primi stadi di quest’arte, ma solo quando il corpo è allenato, messo a punto e tonificato a un livello tale da accettare queste posture”.
“Gli archi devono essere percepiti più che espressi, manifestati. Le altre posizioni possono essere manifestate e poi percepite. Come nella meditazione, ognuno deve percepire gli archi”.
“Gli archi non sono posture intese per l’espressione esteriore. Gli archi sono concepiti per comprendere le parti posteriori dei nostri corpi. La parte frontale del corpo può essere vista con gli occhi, ma la parte posteriore può essere solo percepita. Ecco perché dico che queste sono le posizioni più avanzate, dove lamente inizia a osservare la schiena”.
“Per uno yogi gli asana backbending sono indicati per introiettare la mente, per guardare all’interno e indietro”.
“Senza l’esatto movimento della colonna, non si può esistere (vivere) in modo dinamico”.
“I backbending richiedono un determinato standard sia nella mente che nel corpo”.
“Le capovolte lavorano su certe parti del corpo; gli asana in piedi lavorano su altre parti del corpo così come le rotazioni e i balances. Ma la comprensione del penetrare con la mente nei muscoli e nei nervi spinali non è data dalle suddette posizioni, ma solo dai backbending”.
“I praticanti dovrebbero provarli solo dopo che abbiano padroneggiato gli asanain piedi in particolare, le rotazioni e le capovolte. La parte degli equilibri non è rilevante per gli archi, ma gli altri devono essere padroneggiati. Essi sono la base degli archi”.
“Tadasana è la base degli asana in piedi. Janu Sirsasana è la base dei piegamenti in avanti. Negli asana capovolti, Sarvangasana è la base. Nei balancing Bakasana è la base. Negli archi Urdhva Dhanurasana è la base”.
…”voi create una tremenda profondità e vastità nel torace attraverso gli archi che il centro emotivo (Cuore) modula (riequilibria) tutti i tipi di tensioni e dipressioni. Non ci sarà mai occasione per una persona che effettua gli archi di diventare depresso o stressato a livello emotivo”.
“La bellezza degli archi è che la persona rimane stabile a livello intellettivo – non forte”.
“Gli archi donano stabilità al corpo e portano maturità nell’intelligenza in modo da sviluppare perfezione nel cervello e maturità nelle emozioni”.
“Affermo anche che con gli archi dovete essere cautamente coraggiosi. Non incautamente coraggiosi. Dovete discendere (negli archi) secondo il dettame della spina dorsale. Non potete comandare dal cervello di effettuare le posizioni (degli archi). Come quando giocate con un bambino, salvaguardandoil bimbo da incidenti, in modo simile dovete giocare negli archi, sorvegliando la vostra spina dorsale”.
“Mantenete la mente, l’intelligenza e il potere della volontà in uno stato che non possano abusare e disturbare il vostro corpo”.
“Quando si fanno gli archi si deve pensare e ripensare. Si deve partire dall’inizio”.
“Nelle altre posture lo sterno viene toccato dal di fuori, mentre negli archi lo si tocca dall’interno. Questo ci aiuta a educare la mente in entrambi i modi. In Sirsasana, nelle discese in avanti e nei balancing, la mente agisce in modo estroverso (verso l’esterno). Negli archi la mente va all’interno. Con entrambi si colpisce la mente interna da dentro e da fuori usando il corpo come strumento”.
“Nelle discese in avanti si usa la mente esterna, mentre negli archi la mente esterna è resa silente e la mente interna è messa all’opera”.
“Negli archi si tocca ovunque il corpo fisicamente, mentalmente, intellettualmente, coscientemente e spiritualmente”.
“Questa è la bellezza degli archi. Emotivamente non potremo essere disturbati, perché il centro emotivo (Cuore) diventa estrovertito. Quando fate ViparitaDandasana, le vostre teste guardano all’indietro, ma la vostra mente cosciente si espande ovunque. Studiate osservando come la mente viene modulata. Conoscerete non solo la libertà nella colonna, ma anche nello spirito”.
Mi auguro di aver reso giustizia alla profondità d’intenti di B.K.S.Iyengar traducendo nel miglior modo per me possibile . Rileggo continuamente queste gemme preziose, facendo onore al suo detto “Pensare e ripensare” e praticando come mi è stato insegnato. Buona riflessione!
Per l’Ayurveda la stagione invernale, caratterizzata da freddo, neve e giornate buie e brevi, viene associata al dosha kapha le cui qualità che lo contraddistinguono sono pesantezza, freddo, umidità, lentezza, staticità. Kapha dosha,formato dagli elementi acqua e terra, domina in questo periodo sia nell’ambiente che l’individuo stesso con conseguente aumento di liquidi come muco e catarro, abbondanti secrezioni nasali e lacrimazioni.
Le articolazioni tendono ad essere rigide, e nella pratica dello yoga dobbiamo fare un buon riscaldamento per accedere ad asana come archi, rotazioni e intensi stiramenti in avanti. Notate come in primavera e in estate la pratica è diversa. Se in inverno non riscaldiamo a dovere i l nostro corpo col fuoco di una accurata pratica, rischiamo di farci male, perchè tutto è più rallentato, Kapha dosha procura letargia e lentezza in questo periodo del freddo invernale.
Riuscire a comprendere i ritmi ai quali la Natura ci sottopone è come per un surfer cavalcare al meglio l’onda con la sua tavola, sfruttandone tutta l’energia specifica in maniera ottimale. Per cui inverno equivale a freddo e bisogno di maggior calore per sciogliere questa pesantezza, umidità e conseguente lentezza che lo accompagnano.
Quando si scatena un raffreddore, è consigliabile adottare una alimentazione più leggera, limitare i latticini, evitare le bevande fredde. In ayurveda è molto utilizzato il trikatu che contribuisce a sciogliere il muco ad ogni livello. È consigliato inoltre effettuare il lavaggio nasale (jala neti) con acqua tiepida salata almeno una volta al giorno, preferibilmente la mattina appena svegli, con la lota, tipico strumento utilizzato dagli yogi per purificare i condotti respiratori nasali. Che altro dire ancora? Riscaldatevi al fuoco delle pratiche yogiche!
Cinque minuti per gustare nel nostro shavasana, il rilassamento dopo la pratica dello yoga, le antiche melodie senza tempo di un popolo con tradizioni a noi ancora sconosciute: i mongoli. Questi suoni entrano come un vento tiepido nelle profondità della nostra anima, facendo vibrare le corde del nostro cuore come le arpe eoliche degli antichi Celti. Suoni e melodie antiche come l’Universo, riscoperte nell’infinita cassa di risonanza del Cosmo per riconnettere gli “entronauti” di ogni epoca con la Luce dentro di sé. Utilizzateli per il vostro shavasana, per una breve meditazione, per sciogliere i nodi del Cuore e per ricollegarsi con il Sé infinito.
La melodia del vento È la canzone che racconta il ritmo del vento, dell’andatura del cavallo, dell’avvicendarsi di laghi e foreste. Dall’imitazione dei suoni della natura nasce a sua volta l’hoomiy, canto di gola, la raffinata tecnica vocale che consente di riprodurre il fruscio delle fronde, i versi degli uccelli, lo scrosciare dei fiumi. Con uno spericolato alternarsi di respirazione addominale, canto di naso e di gola e uso del torace.
Le anime mistiche ameranno la produzione sacra: buddhista (mutuata dal Tibet lamaista) e sciamanica, solitamente accompagnata dal tamburo, che simboleggia la cavalcatura utilizzata nel rito. Ma tutti si lasceranno commuovere dal khoomei, il canto armonico e persuasivo che i nomadi usano per sussurrare alle loro greggi. Gorgheggiare agli animali? Sì, e se ne è fatto anche un film di successo, “La storia del cammello che piange.” Perché accade che un cucciolo sia rifiutatodalla madre. E accade che il pastore, cantando di gola, modulando la voce, sussurrando melodie alla madre fedifraga, alla fine la convinca a prendersi cura del negletto piccino. Un trionfo della pastorizia mongola e del potere del canto.A tanta ricchezza sonora corrisponde un adeguato campionario di strumenti musicali.
Su tutti domina il morin khuur (in alto a destra), strumento nazionale del Paese, insostituibile accompagnamento dell’urtyn duu, entrato nel 2010 nel Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco, insieme al khoomi, il canto di gola. Simile a una viola da gamba, si suona tirando o spingendo di lato le corde (a differenza degli strumenti occidentali, in cui le corde si schiacciano e si pizzicano). Della stessa famiglia fanno parte l’Ikh Khuur (contrabbasso), l’Huu-Chir (violino), la Yatga (cetra), lo Yoo-Chin (salterio a percussione), il Tobs Khuur e lo Shanz (liuto).
Gli strumenti a fiato si vantano del Limbe, secondo per importanza solo al Morin Khuur. Simile al flauto traverso, possono suonarlo solo gli uomini, che adottano una tecnica di respirazione particolarmente difficoltosa, detta “circolare”, con cui si soffia nello strumento e contemporaneamente si inspira nuova aria. Meno ostici da affrontare lo Tsuur (flauto dritto), il Bishur (oboe), l’Ever Buree (clarinetto), il Rapal (tromba d’ottone), il Ganlin (o Gandan, o Dun, tromba corta usata per i rituali buddisti), il Buri (colossale tromba in rame rosso lunga quasi cinque metri).
Di derivazione cinese o tibetana le percussioni: Rnga (grande tamburo orizzontale), Damaru (tamburo a clessidra), Khets (tamburello con sonagli), Tsan (piatti), Gong, Aman Khhur (scacciapensieri). Tra tanta musica tradizionale, un “orecchio di riguardo” la merita anche la musica classica occidentale. Nel 1957 è stata istituita la Filarmonica Nazionale, che ha fatto conoscere e amare ai mongoli le composizioni occidentali più famose.
L’apoteosi ha avuto luogo nel 1980, quando il maestro Ts. Namsraijav ha commosso il suo popolo con un’impeccabile esecuzione della Nona Sinfonia di Beethoven. Altro momento grandioso il 3 maggio 2003: per ricordare l’anniversario della nascita di Gengis Khan (840 anni, e il suo mito è ancora fresco come una rosa) il più grande compositore mongolo, B. Sharav, ha rappresentato al Teatro Nazionale dell’Opera e del Balletto la sua opera Chinggis. Forma sonora occidentale per cantare il più grande eroe asiatico.
A proposito di canto: le capriole vocali e le strepitose qualità richieste al più normale dei mongoli per intonare una canzoncina fanno sì che molti di loro si avventurino in Italia a studiare lirica. Gioco da ragazzi, per le loro ugole altamente esercitate!